La fede nella resurrezione ha sorretto nei secoli i credenti in Cristo, sostenendoli anche nelle tribolazioni e spesso nel martirio. Anche oggi molti nostri fratelli muoiono per la loro fede nel Cristo Risorto, e ciò non può essere assente dalla nostra preghiera, come non può essere assente dalla nostra preghiera il mondo intero, con le sue tribolazioni, che affidiamo alla Divina Misericordia.
Prima lettura At 2.42-47 Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune.
Gli atti degli apostoli presentano la comunità dei primi discepoli in modo idealizzato, perché essa sia il modello della chiesa di tutti i tempi. La doppia comunione, spirituale e materiale secondo le esigenze di ciascuno, la caratterizza e la rende segno profetico dell’umanità redenta. In tal modo, vivendo il vangelo, essa è testimone della fede che professa.
Dal Salmo 117 - Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.
La fedeltà di Dio che agisce in salvezza del suo popolo ispira il canto di lode del salmista. Con lui possiamo anche noi lodare il Signore perché «il suo amore è per sempre».
Seconda lettura1 Pt 1, 3-9: Ci ha rigenerati con una speranza viva, mediante la resurrezione di Gesù Cristo dai morti.
L’autore della lettera di Pietro si rivolge ad cristiani che sono nella tribolazione. Ad essi, in questo inizio di lettera che ha indole di benedizione liturgica, annuncia la bellezza della vita di battezzati: rigenerati dalla resurrezione di Cristo e da essa animati da una speranza che resiste nella tribolazione, sapendo di perseguire la meta: la salvezza.
Riflessione sul vangelo Gv 20, 19-31: Otto giorni dopo venne Gesù.
Otto giorni dopo la sua resurrezione il Crocifisso appare ai discepoli chiusi nel cenacolo e nascosti per timore. La sua presenza suscita la gioia negli apostoli, ai quali Gesù porta il dono primo del Risorto: la pace.
L’episodio dell’apparizione all’apostolo Tommaso (cfr. Gv 20, 24-29) è forse uno dei più conosciuti del vangelo di Giovanni, anche per tutte le successive interpretazioni che fanno di Tommaso un incredulo, un dubbioso, un resistente alla fede.
L’apostolo Tommaso, assente dalla scena del cenacolo alla prima manifestazione del Risorto, alla notizia di questa avanza la propria richiesta: «se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Gv 20,25). Per quanto l’istanza possa apparire ispirata da grossolano empirismo, tale non è. Il problema di Tommaso, il suo e il nostro, è molto serio e lui lo prende di petto: il male. Il male, nella forma totale in cui si è presentato in occasione della passione (come odio, violenza, ,sopraffazione, menzogna, sofferenza fisica, morte), è lo scandalo più arduo della nostra esistenza. Tommaso ne aveva visto nella passione di Gesù tutta la sua radicalità e la sua potenza. Ora, se quel Risorto che gli hanno annunciato i suoi amici non è lo stesso crocifisso che hanno visto soffrire pochi giorni prima, tutto ciò che gli dicono non ha valore. Il Risorto deve essere il crocifisso, altrimenti la resurrezione non è vittoria sul male. Solo nella continuità fra i due (crocifisso e risorto) c’è uno sbocco al trionfo del male.
«Otto giorni dopo» i discepoli sono ancora insieme, e questa volta c’è anche Tommaso.
Il Risorto si manifesta di nuovo e mostra a Tommaso i segni della passione.
Da una parte in questa apparizione c’è la risposta alla richiesta dell’apostolo: il Risorto è lo stesso crocifisso. Ma dall’altra parte questo suo mostrare le piaghe aumenta lo scandalo del male. Gesù porta impressi anche nel corpo glorioso della resurrezione i segni della passione. Il male lascia sempre memoria e traccia di sé, anche in Dio. La resurrezione è la vittoria di Dio sul male, vittoria che è di Dio e per l’uomo; tuttavia l’enigma del male proprio perché lascia segni anche in Dio aumenta. La filosofia, la teologia, la psicologia hanno percorso molte vie nel tentativo di risolvere il problema del male. Ne sono sempre uscite sconfitte dalla sua inafferrabilità. Hanno identificato strategie di contenimento, utili e necessarie, ma mai risolto il problema. Alcuni hanno anche cercato di negare l’esistenza stessa del male, ma esso si è ripresentato in tutta la sua evidenza non eludibile con qualche trucchetto della ragione. Dio ha affrontato, trapassato, e vinto il male; non l’ha spiegato con argomentazioni deduttive e razionalizzanti. Ma la risposta di Dio al problema del male è più importante che quella che darebbe un teorema, o un libro di metafisica: Dio ha vinto il male.
Di fronte alla manifestazione del Risorto Tommaso professa la sua fede: «mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Parole che sono una confessione di fede, una invocazione e la più sublime delle preghiere.
Ma a questa mèta Tommaso giunge attraverso il travaglio dell’inquietudine, della ricerca e della domanda, anche ardita. La fede deve passare per tutto ciò per essere fede approfondita e interiorizzata. Il percorso dell’apostolo è una sfida ai percorsi di fede troppo facili e troppo superficiali. Oggi, non è più tempo per fedi superficiali.
Tommaso è il discepolo che più ci è vicino. Anche nel monito di Gesù «non essere più incredulo, ma credente» (1 Gv 20,27). La sua inquietudine, il blocco causato in lui dal problema radicale del male, rischiano di farlo scivolare nell’incredulità, come può avvenire in noi. Ma tutta la sua vicenda conduce Gesù a proclamare una nuova beatitudine, che è la nostra: «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). E come la sua vicenda è la nostra, così la sua preghiera può essere la nostra. La fede deve farsi adorazione, se no rimane esercizio intellettuale.
L’inizio del vangelo di oggi descrive una comunità di apostoli pavidi, oppressi dallo sconforto, rinchiusi «per il timore dei giudei» (Gv 20,19). Tuttavia, non è necessario essere perseguitati per essere catacombali. Basta essere comunità autoreferenziali: quando si è solamente attenti alla sopravvivenza delle proprie strutture e dei propri organismi; oppure si può essere autorefernziali quando si perde il coraggio di ardire linguaggi nuovi per esprimere gli stessi contenuti della fede. Quante volte basta parlare per pochi minuti con un cristiano per capire, se si ha un po’ di consuetudine, a quale movimento, gruppo, associazione appartiene. Serve solo fare attenzione ad alcune espressioni stereotipate. Frasi che si dicono non per essere capiti, ma per la pigrizia di cercarne altre, accessibili e dunque efficaci. Una comunità che parla solo per se stessa non è evangelizzante.
Eppure il Risorto ha investito la sua chiesa di una grande dignità: continuare la sua missione. «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». È un compito alto, entusiasmante, che ci dà la possibilità di sperimentare nuovi linguaggi, di osservare nuovi panorami, di percorrere nuove vie.
L’episodio dell’apparizione all’apostolo Tommaso (cfr. Gv 20, 24-29) è forse uno dei più conosciuti del vangelo di Giovanni, anche per tutte le successive interpretazioni che fanno di Tommaso un incredulo, un dubbioso, un resistente alla fede.
L’apostolo Tommaso, assente dalla scena del cenacolo alla prima manifestazione del Risorto, alla notizia di questa avanza la propria richiesta: «se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Gv 20,25). Per quanto l’istanza possa apparire ispirata da grossolano empirismo, tale non è. Il problema di Tommaso, il suo e il nostro, è molto serio e lui lo prende di petto: il male. Il male, nella forma totale in cui si è presentato in occasione della passione (come odio, violenza, ,sopraffazione, menzogna, sofferenza fisica, morte), è lo scandalo più arduo della nostra esistenza. Tommaso ne aveva visto nella passione di Gesù tutta la sua radicalità e la sua potenza. Ora, se quel Risorto che gli hanno annunciato i suoi amici non è lo stesso crocifisso che hanno visto soffrire pochi giorni prima, tutto ciò che gli dicono non ha valore. Il Risorto deve essere il crocifisso, altrimenti la resurrezione non è vittoria sul male. Solo nella continuità fra i due (crocifisso e risorto) c’è uno sbocco al trionfo del male.
«Otto giorni dopo» i discepoli sono ancora insieme, e questa volta c’è anche Tommaso.
Il Risorto si manifesta di nuovo e mostra a Tommaso i segni della passione.
Da una parte in questa apparizione c’è la risposta alla richiesta dell’apostolo: il Risorto è lo stesso crocifisso. Ma dall’altra parte questo suo mostrare le piaghe aumenta lo scandalo del male. Gesù porta impressi anche nel corpo glorioso della resurrezione i segni della passione. Il male lascia sempre memoria e traccia di sé, anche in Dio. La resurrezione è la vittoria di Dio sul male, vittoria che è di Dio e per l’uomo; tuttavia l’enigma del male proprio perché lascia segni anche in Dio aumenta. La filosofia, la teologia, la psicologia hanno percorso molte vie nel tentativo di risolvere il problema del male. Ne sono sempre uscite sconfitte dalla sua inafferrabilità. Hanno identificato strategie di contenimento, utili e necessarie, ma mai risolto il problema. Alcuni hanno anche cercato di negare l’esistenza stessa del male, ma esso si è ripresentato in tutta la sua evidenza non eludibile con qualche trucchetto della ragione. Dio ha affrontato, trapassato, e vinto il male; non l’ha spiegato con argomentazioni deduttive e razionalizzanti. Ma la risposta di Dio al problema del male è più importante che quella che darebbe un teorema, o un libro di metafisica: Dio ha vinto il male.
Di fronte alla manifestazione del Risorto Tommaso professa la sua fede: «mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Parole che sono una confessione di fede, una invocazione e la più sublime delle preghiere.
Ma a questa mèta Tommaso giunge attraverso il travaglio dell’inquietudine, della ricerca e della domanda, anche ardita. La fede deve passare per tutto ciò per essere fede approfondita e interiorizzata. Il percorso dell’apostolo è una sfida ai percorsi di fede troppo facili e troppo superficiali. Oggi, non è più tempo per fedi superficiali.
Tommaso è il discepolo che più ci è vicino. Anche nel monito di Gesù «non essere più incredulo, ma credente» (1 Gv 20,27). La sua inquietudine, il blocco causato in lui dal problema radicale del male, rischiano di farlo scivolare nell’incredulità, come può avvenire in noi. Ma tutta la sua vicenda conduce Gesù a proclamare una nuova beatitudine, che è la nostra: «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). E come la sua vicenda è la nostra, così la sua preghiera può essere la nostra. La fede deve farsi adorazione, se no rimane esercizio intellettuale.
L’inizio del vangelo di oggi descrive una comunità di apostoli pavidi, oppressi dallo sconforto, rinchiusi «per il timore dei giudei» (Gv 20,19). Tuttavia, non è necessario essere perseguitati per essere catacombali. Basta essere comunità autoreferenziali: quando si è solamente attenti alla sopravvivenza delle proprie strutture e dei propri organismi; oppure si può essere autorefernziali quando si perde il coraggio di ardire linguaggi nuovi per esprimere gli stessi contenuti della fede. Quante volte basta parlare per pochi minuti con un cristiano per capire, se si ha un po’ di consuetudine, a quale movimento, gruppo, associazione appartiene. Serve solo fare attenzione ad alcune espressioni stereotipate. Frasi che si dicono non per essere capiti, ma per la pigrizia di cercarne altre, accessibili e dunque efficaci. Una comunità che parla solo per se stessa non è evangelizzante.
Eppure il Risorto ha investito la sua chiesa di una grande dignità: continuare la sua missione. «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». È un compito alto, entusiasmante, che ci dà la possibilità di sperimentare nuovi linguaggi, di osservare nuovi panorami, di percorrere nuove vie.